Olimpio Guido: Dal Far West al deserto afghano. Indiani Sioux a caccia di talebani

14 Marzo 2007
Quando i soldati blu danno la caccia a un nemico invisibile chiedono sempre l’aiuto degli scout indiani. C’erano lungo le colline del Little Big Horn insieme a Custer. Da ‟Coltello insanguinato” ucciso nella battaglia al famoso ‟corvo” Curley diventato il testimone - spesso contestato - degli ultimi istanti del generale. Scampato al massacro morì di polmonite e fu sepolto nel cimitero riservato al Settimo. Gli scout vennero impiegati a decine per catturare un genio della battaglia quale era Cavallo Pazzo. Seguivano le orme dei fratelli, combattevano e ci lasciavano la pelle. Erano invece i Navajo ad accompagnare le truppe americane nell’inseguimento dell’Apache Geronimo nello spettrale Canyon de los Embudos. Diventarono preziosi e fondamentali i consigli dei nativi americani inquadrati da un ufficiale che loro avevano ribattezzato ‟Naso lungo”. Al fianco della Cavalleria si infiltrarono in una regione inospitale, arida, con profondi canaloni e anfratti. Un terreno difficile anche per uomini dotati di una resistenza mai vista. Una terra dura che ricorda quella dei monti afghani, dove si nascondono talebani, il mullah Omar e probabilmente Osama Bin Laden. Ora il Pentagono ha deciso di impiegare una task force composta da membri delle tribù Navajo, Sioux, Apache nello scacchiere orientale. Toccherà agli scout battere le zone di confine con il Pakistan e quelle vicine all’Uzbekistan. Dovranno scovare i segni del passaggio dei guerriglieri, sperando che possano portare ai rifugi di ribelli simili sempre più a fantasmi. Nei momenti difficili della storia americana le vittime di una guerra di sterminio sono state tirate fuori dalle riserve per sfruttare la loro abilità. Dal Far West al secondo conflitto mondiale per finire nella giungla del Vietnam dove facevano strada alle pattuglie che provavano a inseguire gli imprendibili vietcong. La scelta del Pentagono è imposta da una nuova valutazione delle operazioni anti-Al Qaeda. Per troppo tempo gli americani si sono affidati al meglio della tecnologia provando a cercare i grandi latitanti del terrorismo con satelliti, aerei senza pilota, sensori, intercettazioni. I jihadisti però sanno bene che una semplice comunicazione telefonica può diventare la calamita per un missile guidato. Poche battute al satellitare e sei morto. Dunque silenzio-radio - come si dice in questi casi -, contatti elettronici ridotti al minimo. Serve altro per stanarli. Servono uomini dall’occhio lungo e allenato. Un arbusto spezzato, delle pietre smosse ad un guado, i resti di un fuoco notturno diventano indizi del passaggio di una colonna di mujaheddin. Finalmente il comando Usa ha investito nell’Humint, nell’intelligence animato da uomini sul campo. Gli esploratori indiani si muovono nel più grande silenzio, sfidano il nemico sullo stesso terreno. Ombre per catturare ombre nell’inferno di Kandahar. Una ripetizione di quanto fatto in un altro quadrante. Nel deserto del Sahara, sono stati arruolati i tuareg per contrastare il passo alle bande salafite che provano a creare nuovi santuari. Gli israeliani, invece, puntano sui beduini, schierati al confine con il Libano e lungo la frontiera con l’Egitto. Reclutati tra i clan che vivono nei precari e spesso desolati villaggi del Negev trovano un riscatto ed un salario. I loro bersagli vanno dai trafficanti di uomini ai terroristi. Il coinvolgimento degli indiani - già utilizzati in Arizona con la Border Patrol per inseguire i clandestini sudamericani - è una risposta ai consigli degli esperti del Pentagono, che hanno rielaborato i piani dopo il disastro iracheno. Meno manuale, meno high tech, e più intuito. Conta soprattutto l’esperienza. È quanto predica da tempo David Kilcullen, un ex ufficiale australiano al servizio degli Usa considerato la mente dell’anti-guerriglia. Con un po’di fantasia gli inglesi lo hanno già ribattezzato Lawrence d’Arabia, un altro maestro della guerra irregolare. Navajo e Sioux agiranno con i team cerca e distruggi delle forze speciali. Da giorni i commandos sono in azione. Partono dai fortini alleati con nomi suggestivi - ‟Alamo”, ‟Fort Apache” -, raggiungono in elicottero le alture dove si nascondono i talebani, sbarcano e inizia il rastrellamento. In quello che gli ufficiali definiscono, con un tocco di colore, ‟territorio indiano”. Gli scout possono diventare utili nel suggerire il punto ideale per una trappola. Perché gli insorti - lo rivelano i video di propaganda - si muovono spesso a piedi per sottrarsi alla ricognizione aerea. Quindi l’attraversamento di un torrente, i segni in una grotta, i resti di cibo diventano tracce utili per trovarli. Le incursioni delle Special Forces dietro le linee hanno sorpreso gli integralisti. Un emiro locale è sparito nel cuore della notte, un responsabile del traffico di missili è stato incenerito con un raid. I capi ribelli hanno ordinato ai loro seguaci di stare in guardia aumentando la pressione sulla popolazione locale. Le ripetute esecuzioni di presunte spie ci dicono che la tattica più dinamica del Pentagono è accolta con inquietudine dai mullah. E adesso si trovano davanti ad un cacciatore inedito quanto determinato. Quegli indiani che nel settembre 2006 Ayman Al Zawahiri ha corteggiato denunciando il loro massacro da parte dei bianchi. Sarebbe da film se fosse un Apache a scoprire il suo rifugio.

Guido Olimpio

Guido Olimpio, 48 anni, è giornalista del ‟Corriere della Sera”. Dal 1999 al 2003 corrispondente in Israele. Da vent'anni segue il terrorismo internazionale e, in particolare, quello legato alle crisi …